La Biennale d’Arte di Venezia 2017. Un’occasione per fermarsi a riflettere sul contemporaneo e cercare spunti per immaginare i tanti possibili futuri

Come era solito dire Kandinsky, l’arte è figlia del proprio tempo e madre dei propri sentimenti.

Visitare Venezia è sempre una gran gioia, capace di scaldarti il cuore ed emozionarti ad ogni riverbero dell’acqua, che crea un bagliore di luce sulle facciate delle case a ridosso dei canali. Ogni motivo è buono per passare del tempo in questa magica città, che ha la capacità di farti sentire completamente libero dalle costrizioni e dai limiti dello spazio e del tempo. Appena lasci alle tue spalle piazzale Roma, ti senti completamente calato in una nuova dimensione, quasi avessi fatto un viaggio con una macchina del tempo e non solo qualche km da casa tua.

Personalmente ho la gran fortuna di avere amici di infanzia che vivono lì, dunque, oltre a tutto ciò, aggiungo anche la gioia di rivedere persone care, ed ecco che il mix perfetto, per un week end capace di farti ricaricare le batterie, è pronto!

Un ulteriore motivo per amare Venezia, oltre allo spritz naturalmente, è la Biennale, la manifestazione dedicata all’arte contemporanea.

Parlare di arte contemporanea oggi è come attraversare un campo minato: rischioso e azzardato, soprattutto se, continuando con la metafora, non si sa dove mettere i piedi. Commentando infatti allestimenti ed opere è spesso facile percorrere strade già battute e cadere nei più frequenti cliché. Le frasi che si sentono più spesso spaziano da “questi in realtà non sanno disegnare” a “se devi spiegarlo allora non è arte”, passando ovviamente per “l’arte è bellezza”. Il nodo centrale della questione è l’incapacità di mettersi davanti all’opera e farsi semplicemente coinvolgere lasciandosi andare alla contemplazione, mettendo in discussione il proprio sistema di valori e senso estetico… hai detto poco!

Solo in un secondo momento bisognerebbe spostarsi verso il cartellino con titolo e autore solitamente posto in basso a destra.

Non bisognerebbe poi giungere a banali commenti come “bello/brutto”, “mi piace/non mi piace” o soprattutto “e cosa ci vuole, sono capace anche io a farlo”. Perché già Bruno Munari, uno dei protagonisti italiani del XX secolo, che personalmente adoro, riuscì a mettere a tacere tutti con una semplice frase: “Quando qualcuno dice: questo lo so fare anche io, vuol dire che lo sa rifare altrimenti lo avrebbe già fatto prima.”

Detto questo, io stessa sono la prima a non comprendere a pieno molte delle opere d’arte contemporanea, ma sono anche dell’idea che occorra, in un certo senso, rinunciarci. Con ciò intendendo dire che la nostra parte più intellettuale dovrebbe alzare bandiera bianca e dare spazio all’emozione che l’arte provoca, capace quest’ultima di alimentare la curiosità dell’uomo, andare alla ricerca di quegli strumenti che incrementano le conoscenze e che lo rendono libero dalle catene dei luoghi comuni.

Perché l’arte non regala risposte, ma fa porre domande. Spetta a ognuno di noi il compito di risolvere gli enigmi e andare avanti, tenendo inoltre sempre a mente che l’arrivo è posto sull’orlo dell’infinito.

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